Senza desideri




Quell'anno il freddo arrivò subito, le strade a novembre erano già lastricate di ghiaccio. La legge sui desideri entró in vigore il gennaio seguente, e ricordo che i giornali la rilanciarono entusiasti. Era una misura che, ovviamente, non mi riguardava, ma avevo al tempo un vicino - un brav’uomo - che sapevo non avere alcun desiderio. Me lo confessó una sera d’estate sul terrazzo di casa sua, casa che era poco più di una soffitta, posta proprio sopra la nostra camera da letto e grande poco di più. Ero in ansia per lui: certo, non avere nemmeno mezzo desiderio è una vergogna, prima ancora che un crimine, eppure non riuscivo a volergli male - era sempre stato così gentile con noi. A fine gennaio lo incontrai sul pianerottolo e gli dissi che da me non avrebbe avuto problemi, che avrei tenuto la bocca chiusa. Mi ringrazió con un cenno del capo e continuó a salire le scale. E di fatto la tenni chiusa, ma non bastó: verso la fine di marzo, mentre tornavo a casa coi sacchi della spesa, vidi i vigili che lo facevano salire in macchina. Ma tu lo sapevi? mi chiesero in famiglia appena entrai, e io dissi che sì, lo sapevo ma che forse non era una colpa così orribile come pensavamo. Mia figlia mi chiese anche cosa gli sarebbe successo. Al tempo, era prevista una serie di incontri con un esperto, una terapia, quindi una serie di esami a distanza di pochi mesi e, se la cosa non si risolveva, gli arresti domiciliari. Tornò tardi quella sera, sentii i suoi passi dal soffitto quando già ero letto a cercare di prender sonno. 

Nei mesi seguenti non lo incontrai più, ma la signora del terzo piano mi disse che la terapia non stava andando bene, e che era stato proprio lui a confidarglielo. Anche lei sembrava non serbargli rancore: sentii, dal tono della sua voce, certo più malinconia che disprezzo. Ma i nostri comuni dispiaceri non potevano far molto, e alla fine dell’estate arrivarono gli ufficiali del tribunale a sigillargli la porta. L’avrebbero riaperta solo due anni dopo, per nuovi esami, e così via finché la cosa non si fosse risolta. Ricordo che pregai per lui. 

Poi peró, l’anno seguente, lo rividi. Mi ero affacciato alla finestra e sentii due gocce cadermi sulla testa. Guardai in su ed era lì, che annaffiava le piante che gli affollavano il terrazzo. E allora? gli urlai. Mi disse che stava bene e che la sua vita non era poi così diversa da quella di prima. Lo trovai sereno, persino ringiovanito. L’anno seguente lo prelevarono per il nuovo esame, ma lo venni a sapere quando tornammo dalle vacanze - e contestualmente mi dissero anche che l’esame era andato male, e che tornava dentro, stavolta per tre anni. L’anno dopo ancora, te lo ricordi?, fu quando scoppiò la guerra e cominciammo ad avere i primi problemi coi soldi e col lavoro. Ricordo che la notte che decidemmo di andar via, pensai di salire su a togliergli i sigilli, non tanto per farlo scappare ma per salutarlo, e casomai bere un ultimo bicchiere con lui sul terrazzo. Ma alla fine mi passò di mente, c’eran tutte quelle borse e le bambine e la macchina da andare a prendere: ci ripensai che avevamo già imboccato l’autostrada. 

Bè insomma, volete sapere? Oggi ho scoperto che è uno dei pochi sopravvissuti a tutto il casino che c’è stato dopo. È sempre stato lì, su quel terrazzo, mentre mezza città veniva giù. Persino le piante sono miracolosamente intatte. Spero davvero che, ora che le cose laggiù si sono calmate, qualcuno lo faccia uscire. E che riesca non dico a guarire, ma almeno a farsi una vita.

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